Rudolph, la renna dal naso rosso


Sai dove abitano le renne? Lassù nel nord, dove le notti sono più scure e più lunghe e la neve è molto più bianca che da noi. Ogni anno, Babbo Natale va in quel luogo per cercare gli animali più forti e più veloci per trasportare nell’aria la sua enorme slitta. Da quelle parti viveva una famiglia con cinque piccoli. Il più giovane rispondeva al nome di Rudolph ed era una piccola renna particolarmente vivace e curioso, infilava sempre il suo naso ovunque. Un naso che era molto particolare perché, quando il suo piccolo cuore di renna batteva un po’ più forte per l’agitazione, diventava rosso come il sole incandescente poco prima del tramonto. Ugualmente, se era allegro o arrabbiato, il naso di Rudolph si illuminava in tutto il suo splendore.
I suoi genitori ed i suoi fratelli si divertivano con il suo naso rosso, ma già all’asilo delle renne era diventato lo zimbello di tutti. “Questo è Rudolph con il naso rosso” così lo chiamavano e ballavano tutto intorno a lui, mentre lo indicavano con i loro piccoli zoccoli.
Anche alla scuola primaria, i suoi compagni continuarono a prenderlo in giro… Rudolph cercava con tutti i mezzi di nascondere il suo naso, a volte lo dipingeva con del colore nero, andava a giocare a nascondino con gli altri ed era contento che per stavolta non lo avevano scoperto. Ma nello stesso momento in cui si rallegrava, il suo naso cominciava ad illuminarsi cosi tanto che il colore si sfaldava! Un’altra volta si infilò nel naso un cappuccio nero di gomma, ma riusciva a respirare solo con la bocca e non appena iniziava a parlare sembrava che avesse una molletta attaccata al naso! I suoi compagni si tenevano la pancia dal ridere e Rudolph corse a casa a piangeva disperatamente. “Non giocherò mai più con questi stupidi” – diceva piangendo e le parole dei suoi genitori e dei suoi fratelli non riuscivano a consolarlo.
I giorni diventano più corti e, come ogni anno, si annunciava la visita di Babbo Natale. In tutte le famiglie di renne i ragazzi giovani e forti si facevano belli. Le loro pellicce venivano a lungo strigliate e spazzolate fino a che non brillavano, le corna venivano pulite con la neve finché non risplendevano alla fioca luce degli inverni del nord. E poi, finalmente, arrivò il momento.
In un piazzale gigantesco, dozzine di renne, impazienti e nervose, raspavano con i loro zoccoli emettendo richiami belli ed allo stesso tempo terrificanti per impressionare i concorrenti. Tra di loro c’era anche Rudolph, la cui forza ed il cui vigore erano superiori a quelli degli altri partecipanti. Puntualmente, al momento stabilito, Babbo Natale atterrò dal vicino paese di Natale, dove era la sua casa, con la sua slitta trainata solo da Donner, il suo fedele caporenna. Una neve leggera iniziò a cadere. Babbo Natale si mise subito al lavoro ed esaminò ogni animale, borbottando poche parole nella sua lunga barba bianca. A Rudolph sembrò un’eternità… Quando la fila arrivò a lui, il suo naso diventò incandescente per l’agitazione, quasi luminoso come il sole. Babbo Natale andò verso di lui, sorrise amichevolmente e scosse la testa. “Sei grande e robusto. E sei un bellissimo giovanotto – disse – ma purtroppo non posso sceglierti. I bambini si spaventerebbero a vederti”.
La tristezza ed il dolore di Rudolph non avevano limiti. Più veloce che poteva, corse attraverso il bosco e scalpitò ruggendo nella neve alta. I rumori e la luce rossa visibile da lontano attirarono una piccola Elfa. Prudentemente gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e chiese: ”Cosa ti è successo?”. “Guarda come brilla il mio naso. Nessuno ha bisogno di una renna con il naso rosso” rispose Rudolph. “Conosco bene questa sensazione” – disse la piccola Elfa -“io vorrei lavorare nel paese di Natale con tutti gli altri Elfi. Ma sempre, quando sono agitata, le mie orecchie iniziano a tremare. E le orecchie tremolanti non piacciono a Babbo Natale”. Rudolph sollevò lo sguardo, con gli zoccoli si asciugò le lacrime dagli occhi e vide una bellissima Elfa, le cui orecchie si muovevano qua e là al ritmo di un battito di ali. “Il mio nome è Herbie” – disse timidamente. E mentre si guardavano negli occhi, l’uno con un naso rosso scintillante, l’altra con le orecchie tremolanti che si muovevano a ritmo, scoppiarono a ridere all’improvviso e risero fintanto che non fece male loro la pancia. In quei giorni fecero amicizia e chiaccherarono ogni giorno. Con passi da gigante si avvicinava il tempo del Natale. In quei giorni, Herbie e Rudolph si incontravano spesso nel bosco.
Tutti erano cosi occupati con i preparativi per le feste natalizie, che nessuno faceva caso che il tempo, giorno dopo giorno, andava peggiorando. Due giorni prima di Natale, la Fata del Tempo consegnò a Babbo Natale il bollettino meteorologico. Questi, con il viso preoccupato alzò lo sguardo al cielo e sospirò rassegnato: “Quando domani attaccherò le renne, seduto sulla cassetta non riuscirò a vederle. Come potrò trovare la strada per arrivare alle case dei bambini?”. Quella notte non riuscì a dormire perché cercava di trovare una via d’uscita. Infine indossò il mantello, gli stivali ed il cappello, attaccò Donner alla slitta e si incamminò verso la Terra. “Forse troverò là una soluzione” pensò. Mentre iniziava a volare, si mise a nevicare con fitti fiocchi. Così fitti che Babbo Natale riusciva appena a vedere. C’era solo una luce rossa che illuminava così chiaramente che sembrava che davanti a lui ci fosse un’enorme quantità di gelato alla fragola (Babbo Natale amava il gelato alla fragola). “Salve” – disse – “che naso bellissimo ed eccezionale che hai! Sei proprio quello di cui ho bisogno. Che cosa ne pensi di correre davanti alla mia slitta e di mostrarmi così la strada per raggiungere i bambini?”. Appena Rudolph ascoltò le parole di Babbo Natale, per l’emozione gli cadde per terra l’albero di Natale che stava trasportando. Poi, lentamente, riprese il controllo di sé stesso. “Naturalmente, lo farò volentieri. Mi fa un enorme piacere”. Ma all’improvviso diventò molto triste. “Ma come faccio a trovare poi la strada per tornare indietro al paese di Natale, se nevica cosi fitto?” Mentre pronunciava quelle parole gli venne un’idea. “Torno subito” – disse – mentre già correva ad un veloce galoppo verso la strada del bosco, lasciando indietro uno stupito Babbo Natale. Pochi minuti dopo, tornò con una piccola Elfa con le orecchie tremolanti. “Lei può condurci indietro, Babbo Natale” – disse Rudolph indicando Herbie – “lei conosce la strada”. “Questa è una magnifica idea!” – tuonò Babbo Natale – “A più tardi.”
E così successe che, per Natale, Babbo Natale fosse accompagnato da una renna con il naso rosso e da un’elfa con le orecchie tremolanti. Rudolph il giorno successivo, per la sua bellissima azione, venne festeggiato da tutte le renne entusiaste. Il giorno successivo ballarono e cantavano:”Rudolph dal naso rosso sei entrato nella storia!”.
E deve essere stato proprio così, altrimenti nessuno avrebbe raccontato questa storia.

Il dono di Natale

(di G. Deledda)


I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia. Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei. E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.
– Ben tornato, Felle.
– Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.
– Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.
– Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.
Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca (una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo).
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava.
Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista. E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro. Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto. Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.
Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.
– La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile. La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida. Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso. All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:
– La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.
Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.
– Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
– Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare: e il popolo rispondeva:
– Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà. Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.
All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.
Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.
Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?
– Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
– È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

Il regalo di Babbo Natale

 (di Riccardo Aldighieri)



Babbo Natale partì dal Polo Nord il giorno della vigilia. I folletti quel giorno ebbero un gran da fare per terminare i giocattoli e fare pacchettini, per riempire la slitta.
Finalmente partì.
Il viaggio fu abbastanza movimentato e pieno di soste.
In una di queste incontrò un ragazzo povero ma entusiasta del Natale che lo aspettava con ansia. A Babbo Natale, quando vide la gioia negli occhi di quel bambino, gli si riempi il cuore di felicità; gli piaceva consegnare i doni se come ricompensa portava allegria ai bambini.
Finalmente, il Buon Vecchio dalla barba bianca arrivò alle porte della città a bordo della sua tintinnante e scintillante slitta. Quest’anno la slitta era più carica del solito: c’erano pacchi, pacchetti, pacchettoni, di tutti i colori e di tutte le forme.
Che incanto guardarla!
Babbo Natale non vedeva l’ora di consegnare tutti quei regali ai bambini e di godersi la gioia dei loro visetti al momento di scartarli. Incitò le sue renne e a gran velocità entrò allegramente sotto l’arco della porta principale.
Era notte fonda. Al principio non se ne accorse ma… dopo un po’… cominciò a vedere qualcosa di strano.
Non vedeva in giro neanche un segno del Natale: non c’erano alberi addobbati, nessuna stella cometa fatta di lampadine, le vetrine erano tutte buie.
Quando poi la sua slitta passò sotto le finestre della scuola elementare il suo sbalordimento fu davvero grande; non c’era niente alle finestre, neanche un piccolo disegno.
Ma insomma – disse, anche un po’ seccato – che modo è questo di ricevermi?
Babbo Natale fu preso dallo sconforto e cominciò a pensare che si fossero dimenticati di lui, ma subito si riprese e bussò ad una porta per chiedere spiegazioni.
Venne ad aprire un vecchio malandato che lo guardò con occhi assenti e spiegò a Babbo Natale che anche quel giorno avevano subito dei bombardamenti, perché quella città era in guerra e quindi la gente aveva paura di morire.
Per questo i bambini non andavano a scuola e si erano nascosti, e tutte le luci della città erano spente per non farsi vedere dal nemico.
A queste parole Babbo Natale si rattristò moltissimo e allo stesso tempo pensò che doveva regalare un po’ di felicità.
Tirò fuori dal sacco un mantello nero e avvolse tutta la città per nasconderla al nemico.
Suonò la campana e raccolse tutti in piazza dove addobbò il più grosso albero di Natale, illuminò tutta la città di mille luci e distribuì tanti doni, a piccoli e grandi.
E, come per incanto, anche gli occhi delle persone tornarono a brillare.

LE STELLE D’ORO


di J. e W. Grimm

Era rimasta sola al mondo. L’avevano messa sopra una strada dicendole: – Raccomandati al cielo, povera bimba!
E lei, la piccola orfana, s’era raccomandata al cielo! Aveva giunte le manine, volto gli occhi su, su in alto, e piangendo aveva esclamato: – Stelle d’oro, aiutatemi voi!
E girava il mondo così, stendendo la manina alla pietà di quelli che erano meno infelici di lei. L’aiutavano tutti, è vero, ma era una povera vita, la sua: una vita randagia, senza affetti e senza conforti.
Un giorno incontrò un povero vecchio cadente; l’orfanella mangiava avidamente un pezzo di pane che una brava donna le aveva appena dato.
– Ho fame – sospirò il vecchio fissando con desiderio infinito il pezzo di pane nelle mani della bimba; – ho tanta fame!
– Eccovi, nonno, il mio pane, mangiate.
– Ma, e tu?
– Ne cercherò dell’altro.
Il vecchio allora la benedisse: – Oh, se le stelle piovessero su te che hai un cuore così generoso!
Un altro giorno la poverina se ne andava dalla città ala campagna vicina. trovò per via una fanciulla che batteva i denti dal freddo; non aveva da ricoprirsi che la pura camicia.
– Hai freddo? – le domandò l’orfanella.
– Sì, – rispose l’altra – ma non ho neppure un vestito.
– Eccoti il mio: io non lo soffro il freddo, e se anche lo sento, mi rende un po’ meno pigra.
– Tu sei una stella caduta da lassù; oh se potessi, vorrei… vorrei che tutte le altre stelle ti cadessero in grembo come pioggia d’oro.
E si divisero. L’orfanella abbandonata continuò la strada che la conduceva in campagna, presso una capanna dove pensava di riposare la notte, e l’altra corse via felice dell’abitino che la riparava così bene.
La notte cadeva adagio adagio e le stelle del firmamento si accendevano una dopo l’altra come punti d’oro luminosi. L’orfanella le guardava e sorrideva al ricordo dell’augurio del vecchio e di quello uguale della bimba cui aveva regalato generosamente il suo vestito. Aveva freddo anche lei, ora; ma si consolava perché la cascina a cui era diretta non era lontana; già ne aveva riconosciuti i contorni.
– Ah sì! – pensava: – se le stelle piovessero oro su di me ne raccoglierei tanto tanto e farei poi tante case grandi grandi per ospitare i bambini abbandonati. Se le stelle di lassù piovessero oro, vorrei consolare tutti quelli che soffrono; sfamerei gli affamati, vestirei i nudi… Mi vestirei – disse guardandosi con un sorriso; – io mi vestirei perché, davvero, ho freddo.
Si sentì nell’aria un canto di voci angeliche, poi il tintinnio armonioso di oro smosso. La bimba guardò in alto: subito cadde in ginocchio e tese la camicina. Le stelle si staccavano dal cielo, e , cambiate in monete d’oro, cadevano a migliaia attorno a quell’angioletto che, sorridendo, le raccoglieva felice:
– Sì, sì! Farò fare, sì, farò fare uno, no… tanti bei palazzi grandi per gli abbandonati e sarò il conforto di tutti quelli che soffrono!
Dal cielo, il soave canto di voci di paradiso ripeteva: – Benedetta! Benedetta!



Tutti i racconti qui citati restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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